Giulia Cecchettin è morta a causa di 75 coltellate in un crescendo di violenza durato venti lunghissimi minuti. In quei venti minuti, Giulia ha avuto il tempo di rendersi conto che stava per morire. Non si è trattato di un impulso improvviso, non di un gesto istintivo. È stata una sequenza prolungata e consapevole di brutalità. Eppure, secondo i giudici della Corte d’Assise di Venezia, questa ferocia non rappresenta crudeltà, ma sarebbe “solo conseguenza dell’inesperienza e della inabilità di Filippo Turetta”.
Davanti a un fatto di questa gravità, ci si aspetterebbe parole forti, condanne chiare, azioni inequivocabili. E invece si assiste ancora una volta a una narrazione che, pur condannando, tende ad attenuare, a sfumare, a giustificare. Come se la vita di Giulia non meritasse pienamente giustizia. Come se ci fosse sempre qualcosa che può alleggerire la responsabilità di chi uccide.
La morte di Giulia Cecchettin e il bisogno di verità
Nel novembre 2023, il femminicidio di Giulia Cecchettin ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Una ragazza di 22 anni, brillante, prossima alla laurea, uccisa dall’ex fidanzato in un atto efferato che ha lasciato una ferita aperta nel cuore dell’Italia. Il suo corpo è stato ritrovato giorni dopo, abbandonato in una scarpata. Un finale crudele per una storia già segnata da possessività, controllo e manipolazione.
Giulia Cecchettin non è un caso isolato. È l’ennesimo volto di una lunga lista di donne uccise da chi diceva di amarle. Ma il suo nome è diventato simbolo, bandiera, urlo collettivo. La sua morte ha acceso una luce sul silenzio, sull’indifferenza, sulla necessità di intervenire prima, molto prima che sia troppo tardi.
La violenza non è mai un incidente
Di fronte a fatti come questi, la società è chiamata a scegliere da che parte stare. E non può esistere alcuna neutralità. Non si può restare nel mezzo. Noi scegliamo di stare sempre dalla parte delle vittime. Sempre dalla parte dei più deboli.
Perché ogni volta che si minimizza, che si cerca una spiegazione attenuante, che si dice “non era intenzionale”, si sta tradendo chi ha subito. Si sta tradendo Giulia Cecchettin, come tante altre donne prima e dopo di lei.
Filippo Turetta non è stato condannato per “crudeltà”, ma la sequenza dei fatti parla da sola. Un’aggressione che dura venti minuti, settantacinque coltellate, una fuga, l’occultamento del corpo. Tutto questo non è frutto di inesperienza. È violenza. È femminicidio. E chiamarlo con il suo nome è il primo passo verso una giustizia vera.
La giustizia deve servire le vittime, non giustificare i carnefici
In Italia si discute molto di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, di riforme, di processi lunghi, di garanzie. Ma troppo poco si parla di garantire alle vittime la condanna certa e senza sconti dei loro carnefici. Troppo spesso la giustizia sembra più preoccupata di trovare un equilibrio, una spiegazione, piuttosto che dare voce al dolore di chi non c’è più.
Non è vendetta quella che chiediamo. È responsabilità. È coerenza. È la certezza che chi toglie la vita a un’altra persona, con premeditazione o per raptus che sia, paghi per intero la sua colpa. Senza scorciatoie. Senza attenuanti improprie.
Giulia Cecchettin meritava di essere protetta prima. E merita giustizia piena, ora.
Il ruolo delle associazioni e della società civile
Nel silenzio delle istituzioni, nella freddezza dei codici, le associazioni diventano presidio di umanità e verità.
Dietro ogni richiesta di aiuto c’è paura, isolamento, vergogna. E dietro ogni aggressore c’è spesso una lunga storia di segnali ignorati, di denunce sottovalutate, di controlli mancati. La violenza non esplode mai all’improvviso. È un’escalation. Come lo è stata per Giulia.
Ecco perché serve un cambiamento culturale profondo. Serve un’educazione sentimentale nelle scuole. Serve formazione per le forze dell’ordine. Serve che le sentenze parlino un linguaggio chiaro, netto, dalla parte delle vittime.
“Non è crudeltà”: il pericolo delle parole
Le parole pesano. Le sentenze fanno storia. E dire che ciò che è accaduto a Giulia Cecchettin “non è crudeltà” crea un precedente pericoloso. Rende possibile che in futuro, in casi simili, si possa ancora giustificare. Che si possa ancora ridurre la gravità.
Ma settantacinque coltellate sono crudeltà. Venti minuti di agonia sono crudeltà. L’abbandono di un corpo è crudeltà. E ogni parola che minimizza è un’ulteriore ferita inferta non solo a Giulia, ma a tutte le donne che vivono con la paura di subire la stessa sorte.
Educare, prevenire, proteggere
Per cambiare davvero, servono azioni concrete. Ecco cosa possiamo e dobbiamo fare, insieme:
- Educazione affettiva nelle scuole: per insegnare fin da piccoli cosa vuol dire rispetto, empatia, relazione sana.
- Centri antiviolenza più presenti e finanziati: con personale formato, ascolto attivo e capacità di intervento immediato.
- Formazione obbligatoria per forze dell’ordine e magistratura: per riconoscere i segnali di violenza e agire tempestivamente.
- Campagne culturali costanti: che aiutino a smontare stereotipi, narrazioni tossiche e vittimizzazioni secondarie.
- Un sistema giudiziario che non giustifichi mai la violenza: che chiami le cose con il loro nome e punisca con fermezza.
Giulia Cecchettin è tutte noi
Giulia era una ragazza come tante. Aveva sogni, progetti, una laurea da discutere. Non voleva morire. E non doveva morire. Il suo volto ci guarda dalle foto e ci chiede una sola cosa: non dimenticare. Non dimenticare la sua storia. Non dimenticare la violenza. Non dimenticare il dolore.
Ma soprattutto, non permettere che accada ancora. Che un’altra donna venga uccisa da chi diceva di amarla. Che un’altra famiglia venga spezzata. Che un’altra sentenza risuoni come un’ingiustizia.
Dalla parte delle vittime, sempre
Giulia Cecchettin è diventata simbolo non per scelta, ma per necessità. Il suo nome è ora legato a una battaglia più grande, che ci riguarda tutti. Una battaglia che chiede rispetto, giustizia, verità. E che non accetta compromessi.
Noi, come associazione, ci saremo sempre. Dalla parte delle vittime. Dalla parte dei più deboli. E continueremo a lottare finché ogni Giulia potrà vivere senza paura.